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Hermann Hesse- Siddharta

Ultimo Aggiornamento: 20/11/2004 20:49
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20/11/2004 20:49

Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria del proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione.
Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento.

Amaro era il sapore del mondo. La vita, tormento. Una meta si proponeva Siddharta: diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso, non essere più lui, trovare la pace del cuore svuotato, nella spersonalizzazione del pensiero rimanere aperto al miracolo, questa era la sua meta. Quando ogni residuo dell'Io fosse superato ed estinto, quando ogni brama e ogni impulso tacesse nel cuore, allora doveva destarsi l'ultimo fondo delle cose, lo strato più profondo dell'essere, quello che non è più Io: il grande mistero.

Molto apprese Siddharta da Samana, molte vie imparò a percorrere per uscire dal proprio Io. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso il dolore, attraverso la volontaria sofferenza e il superamento del dolore, della fame, della sete, della stanchezza. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso la meditazione, attraverso lo svuotamento dei sensi da ogni immagine per mezzo del pensiero.

E Siddharta disse piano, come se parlasse a se stesso: "Che è la concentrazione? Che l'abbandono del corpo? Che cos'è il digiuno? la sospensione del respiro? Tutto questo è fuga di fronte all'Io, breve pausa nel tormento di essere Io, è un effimero stordimento contro il dolore insensato della vita. La stessa evasione, lo stesso effimero stordimento prova il bovaro all'osteria, quando si tracanna alcuni bicchieri di acquavite i di latte di cocco fermentato.

Lungo tempo ho impiegato, Govinda, e non ne sono ancora venuto a capo, per imparare questo: che non si può imparare nulla! Nella realtà non esiste, io credo, quella cosa che chiamiamo "imparare". C'è soltanto, o amico, un sapere, che è ovunque, che è Atman, che è in me e in te e in ogni essere. E comincio a credere: questo sapere non ha nessun peggior nemico che il voler sapere, che l'imparare.

Con un sorriso nascosto, cheto, tranquillo, non dissimile da un bambino sano e ben disposto, camminava il Buddha; portava la tonaca e posava i piedi tale e quale come tutti i suoi monaci, esattamente secondo la regola. Ma il suo volto e il suo passo, il suo sguardo chetamente abbassato, la sua mano che pendeva immota, e perfino ogni dito della mano penzolante immota, esprimevano pace, esprimevano perfezione: nulla in lui che tradisse la ricerca, l'aspirazione a qualche cosa, egli respirava dolcemente in una quiete imperitura, in una imperitura luce, in una pace inviolabile.

"… Le opinioni non contano niente, possono essere belle o odiose, intelligenti o stolte, ognuno può adottarle o respingerle. Ma la dottrina che hai udito da me, non è mia opinione, e il suo scopo non è di spiegare il mondo agli uomini avidi di sapere. Un altro è il suo scopo: la liberazione dal dolore. Questo è ciò che Gotama insegna, null'altro".

Mai ho visto un uomo guardare, sorridere, sedere, camminare a quel modo, egli pensava, così veramente desidero anch'io saper guardare, sorridere, sedere e camminare, così libero, venerabile, modesto, aperto, infantile e misterioso. Così veramente guarda e cammina soltanto l'uomo che è disceso nell'intimo di se stesso. Bene, cercherò anch'io di discendere nell'intimo di me stesso.

"Come son stato sordo e ottuso!" pensava, e camminava intanto rapidamente. "Quand'uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza e segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d'un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo della apparenza, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta".

Già da un pezzo s'era persuaso che il suo stesso Io era l'Atman, di natura ugualmente eterna che quella di Brahma. Ma mai aveva realmente trovato questo suo Io, perché aveva voluto pigliarlo con la rete del pensiero. Anche se il corpo non era certamente quest'Io, e non lo era il gioco dei sensi, però non era l'Io neppure il pensiero, non l'intelletto, non la saggezza acquisita, non l'arte appresa di trarre conclusioni e dal già pensato dedurre nuovi pensieri. No, anche questo mondo del pensiero restava di qua, e non conduceva a nessuna meta uccidere l'accidentale Io dei sensi per impinguare il non meno accidentale Io del pensiero. Belle cose l'una e l'altra, il senso e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, entrambe bisognava guardarsi dal disprezzare o dal sopravvalutare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell'Io.

"Vedi, Kamala, se tu getti una pietra nell'acqua, essa si affretta per la via più breve fino al fondo. E così è di Siddharta, quando ha una meta, un proposito. Siddharta non fa nulla. Siddharta pensa, aspetta, digiuna, ma passa attraverso le cose del mondo come la pietra attraverso l'acqua, senza far nulla, senza agitarsi: viene scagliato, ed egli si lascia cadere. La sua meta lo tira a sé, poiché egli non conserva nulla nell'anima propria, che potrebbe contrastare a questa meta.


In quell'ora Siddharta cessò di lottare contro il destino, in quell'ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all'Unità.

"Quando qualcuno cerca," rispose Siddharta, "allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla, in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non aver scopo.

Dico quello che ho trovato. La scienza si può comunicare, ma la saggezza no. Si può trovarla, si può viverla, si può farsene portare, si possono fare miracoli con essa, ma dirla e insegnarla non si può.

Quando il sublime Gotama parlava del mondo, era costretto a dividerlo in samsara e nirvana, in illusione e verità, sofferenza e liberazione. non si può far diversamente, non c'è altra via per chi vuole insegnare. Ma il mondo in sé, ciò che esiste intorno a noi e in noi, non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore.

Non è concesso all'uomo di scorgere a che punto sia il suo simile della propria strada: in briganti e in giocatori d'azzardo si cela il Buddha, nel Brahmino può celarsi il brigante. La meditazione profonda consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, e allora tutto è bene, tutto è perfetto, tutto è Brahma. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l'intelligenza come la stoltezza, tutto dev'essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male. Ho appreso, nell'anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell'ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com'è, e amarlo e appartenergli con gioia.

Le parole non colgono il significato segreto, tutto appare sempre un po' diverso quando lo si esprime, un po' falsato, un po' sciocco, sì, e anche questo è bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d'accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d'un uomo suoni sempre un po' sciocco alle orecchie degli altri.



HERMANN HESSE



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